È un dialetto di confine, quello di Lidiana Fabbri, questo suo riminese. Non solo di confine geografico, che pure c’è, e ha il suo peso in affabilità e contiguità, come una rosa senza spine rispetto all’ispido santarcangiolese, per esempio, ma anche ha il suo peso di confine epocale. È un dialetto vero, di lingua parlata, comunque posseduta e consumata dall’uso, da quotidiani pensieri che nella riserva indiana ormai assoluta che abbiamo nell’espressione in lingua-dialetto – quando sia nativa, quando non sia esercizio ipercolto di traduzione – risiede con una naturalezza ormai perduta, e certo favorita dalla misura che nella presente raccolta tutta si tiene sui piccoli passi, sui piccoli gesti di ogni giorno: la loro liturgia, la loro impertinenza persino, la loro sapienza e immaginazione di una realtà non solo personale.[...] Una passeggiata nella vita, con le mani in tasca, magari stringendo un pugno di terra del paese d’infanzia, e stipando nella mente ricordi che quasi tremano: si vestono, e spariscono... (T. M.)