Il De Monàrchia è un saggio politico di Dante Alighieri, definito da alcuni “un manifesto politico tra utopia e realtà”.
Dante affronta in questo trattato il nodo politico del suo tempo, cioè il rapporto fra l’autorità religiosa e quella temporale.
Quest’opera fu scritta probabilmente a Firenze, prima dell’esilio, per contrastare la politica di Bonifacio VIII o, secondo altri, fra i quali anche il Boccaccio, al tempo della discesa in Italia di Enrico (Arrigo) VII.
L’opera originale è in lingua latina, divisa in tre libri (qui riproposta nella traduzione in volgare stesa da Marsilio Ficino e risalente ai primi mesi del 1467).
Nel primo libro il poeta espone i temi che tratterà nel corso dell’opera: se la monarchia sia fondamentale per la felicità del mondo; se la dignità imperiale conseguita dal popolo romano sia stata ottenuta con ragione; se l’autorità dell’Imperatore venga direttamente da Dio o debba essere attribuita a questi dal Papa.
Dante sostiene che la monarchia è l’unico sistema politico atto a permettere a tutti il conseguimento della felicità e l’attuazione della giustizia, dato che il monarca è imparziale, non avendo nulla da desiderare.
Inoltre sostiene che il popolo romano ebbe a ragione l’impero della terra, per la sua discendenza da Enea, uomo pio e giusto, e per la sua capacità di attendere al bene dello stato senza cupidigia, ma nell’amore della libertà e del bene comune.
Per chiarire il rapporto fra Chiesa e Stato, Dante ricorre all’immagine metaforica del rapporto fra il sole e la luna, i due lumi creati da Dio: come la luna vive di luce riflessa dal sole, così il regno temporale ha autorità solo in quanto questa gli viene accordata dal potere spirituale.
La Chiesa, tuttavia, non è l’origine dell’autorità imperiale, in quanto il vero potere viene accordato solo e direttamente da Dio.