Questo testo è liberamente tratto da Moby Dick di Herman Melville (1851).
«C'è un'ossessione del senso e un'ossessione del tempo nell'operazione drammaturgica di Angelo Trezza: andare al cuore mitico e sopravvivente del testo (ovvero alla sua sola possibile contemporaneità) e stringerlo nello spazio cronologico di un dire oracolare, per sorprendere la verità intuitivamente, posto che ogni descrizione rischierebbe invece di offuscarla. [...] E il grande corpo del Moby Dick ne esce infatti, in questa riduzione, come una lastra fotografica: scheletrito e fatale. Nutrito di follia: l'umana e spaventosa follia della vendetta, della insanabile attrazione verso la morte. Una morte epica, strangolata dalla vita stessa.» Tiziana Mattioli