Nello scorso mese di aprile abbiamo dato alle stampe un’antologia di poesia cubana dal titolo Una goccia di luce inafferrabile, che ha visto la curatela condivisa di Emilio Coco e di Waldo Leyva. Del primo sono le traduzioni, mentre a quest’ultimo erano affidate la selezione dei poeti e delle poesie nonché l’introduzione. Sebbene Emilio Coco non abbia bisogno di presentazioni (già curatore per noi di vari volumi), ricordiamo qui che è egli stesso poeta, ispanista e traduttore; vincitore di numerosi riconoscimenti, ultimamente è stato insignito del Premio Ramón López Velarde (Messico, 2016). Quanto a Waldo Leyva, è nato a Remates de Ariosa (Cuba) nel 1943, è giornalista, poeta, saggista e narratore. È stato professore di Estetica e di Letteratura Cubana e Ispanoamericana, fondatore e direttore di varie riviste e vincitore di premi come il X Premio Casa de América di Poesia Americana (con El rumbo de los días) e il premio internazionale di Poesia Víctor Mora del Centro di Studi Latinoamericani Rómulo Gallegos in Venezuela (con Cuando el cristal no reproduce el rostro del 2012).
Nella sua introduzione a Una goccia di luce inafferrabile Leyva traccia un breve percorso attraverso la poesia cubana segnalandone le tappe fondamentali e indicandone i nomi più importanti, dando in particolare una panoramica dei movimenti poetici del Novecento, per arrivare a comprendere che cosa sia oggi il fare poesia a Cuba. Questo corposo volume offre soprattutto un saggio dell’opera eterogenea di quaranta poeti attivi a cominciare dalla seconda metà degli anni Sessanta, i quali confermano quanto Leyva scrive nella sua introduzione: che non ci sono tendenze predominanti, ma piuttosto lo sforzo di fissare la propria voce; che tuttavia traspare sempre, in maniera più o meno evidente nei vari poeti, tutta «la realtà sociale dell’Isola e del suo destino, in un mondo così mutevole e contraddittorio».
Di seguito riportiamo tre poesie dello stesso Waldo Leyva, incluso in Una goccia di luce inafferrabile da Emilio Coco, che lo ha ritenuto, quale poeta, parte integrante e non escludibile di questo quadro.
Nella sua introduzione a Una goccia di luce inafferrabile Leyva traccia un breve percorso attraverso la poesia cubana segnalandone le tappe fondamentali e indicandone i nomi più importanti, dando in particolare una panoramica dei movimenti poetici del Novecento, per arrivare a comprendere che cosa sia oggi il fare poesia a Cuba. Questo corposo volume offre soprattutto un saggio dell’opera eterogenea di quaranta poeti attivi a cominciare dalla seconda metà degli anni Sessanta, i quali confermano quanto Leyva scrive nella sua introduzione: che non ci sono tendenze predominanti, ma piuttosto lo sforzo di fissare la propria voce; che tuttavia traspare sempre, in maniera più o meno evidente nei vari poeti, tutta «la realtà sociale dell’Isola e del suo destino, in un mondo così mutevole e contraddittorio».
Di seguito riportiamo tre poesie dello stesso Waldo Leyva, incluso in Una goccia di luce inafferrabile da Emilio Coco, che lo ha ritenuto, quale poeta, parte integrante e non escludibile di questo quadro.
EL ROSTRO
He intentado borrar mi rostro
con el agua, pero él persiste,
tiene la obstinación
de los que esperan encontrar
su sitio entre la muchedumbre;
lo expuse contra el viento,
contra el ardiente sol
y las sombras nocturnas,
pero los rasgos de mi cara
permanecen;
voy por el mundo
con mis gestos más íntimos
unas veces mostrando lo que siento,
descubriendo cierto rincón del pecho
donde se aloja una tristeza,
o la alegría que llegó extraviada hasta mis ojos;
otras veces, las más, voy con la cara
que los otros necesitan;
he ido dejando en espejos sucesivos
las huellas de los años,
pero siempre es el mismo rostro
el que insiste en quedarse en los cristales;
si a nadie le interesa,
si para todos es una cara anónima,
si sólo existe para que los demás
encuentren sus propios gestos verdaderos,
qué sentido tiene entonces
que pretenda afirmar su identidad.
IL VOLTO
Ho cercato di cancellare il mio volto
con l’acqua, ma lui persiste,
ha l’ostinazione
di quelli che sperano di trovare
il loro posto tra la folla;
l’ho esposto al vento,
all’ardente sole
e alle ombre notturne,
ma i tratti del mio viso
rimangono;
vado per il mondo
con i miei gesti più intimi
a volte mostrando quel che sento,
scoprendo un certo angolo del petto
dove alloggia una tristezza,
o la gioia che arrivò smarrita fino ai miei occhi;
altre volte, la maggior parte, vado con il viso
di cui gli altri sentono il bisogno;
ho lasciato in specchi successivi
le orme degli anni,
ma è sempre lo stesso volto
che si ostina a restare sopra i vetri;
se a nessuno interessa,
se per tutti è un viso anonimo,
se solo esiste perché gli altri
vi trovino i propri gesti veri,
che senso ha allora
che pretenda di affermare la sua identità.
Ho cercato di cancellare il mio volto
con l’acqua, ma lui persiste,
ha l’ostinazione
di quelli che sperano di trovare
il loro posto tra la folla;
l’ho esposto al vento,
all’ardente sole
e alle ombre notturne,
ma i tratti del mio viso
rimangono;
vado per il mondo
con i miei gesti più intimi
a volte mostrando quel che sento,
scoprendo un certo angolo del petto
dove alloggia una tristezza,
o la gioia che arrivò smarrita fino ai miei occhi;
altre volte, la maggior parte, vado con il viso
di cui gli altri sentono il bisogno;
ho lasciato in specchi successivi
le orme degli anni,
ma è sempre lo stesso volto
che si ostina a restare sopra i vetri;
se a nessuno interessa,
se per tutti è un viso anonimo,
se solo esiste perché gli altri
vi trovino i propri gesti veri,
che senso ha allora
che pretenda di affermare la sua identità.
ES JUNIO TODAVÍA
Mientras dejo sobre tu piel la isla
rozándote apenas con la yema de los dedos;
mientras tus ojos se cierran para verme
y la sangre se te llena de agujas diminutas;
mientras el aire que te envuelve
quiere estallar en pájaros silvestres
y anuncian las acacias que es junio todavía;
mientras tú sientes satisfecha
cómo la lluvia nace de tu cuerpo
y soy un espolón de sitierías;
mientras las manos se nos multiplican
y tu vientre es un rumor de ríos sbterráneos;
mientras los ojos se te abren para tragarse el cielo
y yo voy hacia el fondo de la tierra;
mientras te beso el corazón por dentro:
puede acabarse el mundo.
È ANCORA GIUGNO
Finché sulla tua pelle lascio l’isola
sforandoti appena col polpastrello delle dita;
finché i tuoi occhi si chiudono per vedermi
e il sangue ti si riempie di minuscoli aghi;
finché l’aria che ti avvolge
vuole esplodere in uccelli selvatici
e annunciano le acacie che è ancora giugno;
finché tu senti soddisfatta
come la pioggia nasce dal tuo corpo
e io sono un argine per piccole tenute;
finché le nostre mani si moltiplicano
e il tuo ventre è un brusio di fiumi sotterranei;
finché gli occhi ti si aprono per ingoiarsi il cielo
e io vado verso il fondo della terra;
finché ti bacio il cuore nell’interno:
può finire il mondo.
Finché sulla tua pelle lascio l’isola
sforandoti appena col polpastrello delle dita;
finché i tuoi occhi si chiudono per vedermi
e il sangue ti si riempie di minuscoli aghi;
finché l’aria che ti avvolge
vuole esplodere in uccelli selvatici
e annunciano le acacie che è ancora giugno;
finché tu senti soddisfatta
come la pioggia nasce dal tuo corpo
e io sono un argine per piccole tenute;
finché le nostre mani si moltiplicano
e il tuo ventre è un brusio di fiumi sotterranei;
finché gli occhi ti si aprono per ingoiarsi il cielo
e io vado verso il fondo della terra;
finché ti bacio il cuore nell’interno:
può finire il mondo.
A MODO DE ELEGÍA
No puedo evitar que me sorprenda
esa costumbre nuestra:
dar de beber primero a los ausentes.
No se trata de convocarlos a la fiesta,
ni tampoco es un ritual de la memoria;
los muertos beben solos.
A medida que los años pasan
el silencio sin ruido, ayer imperceptible,
empieza a acompañarnos,
a dejar sus huellas sobre las sábanas,
a sustituir con nuestro rostro la cara del amigo.
Ayer, mientras descorchaba mi añejo de reserva
para brindar por la llegada de otro año
supe, sin duda alguna,
que debía mojar un rincón de la casa.
Para quién era el trago? ¿a quien debía evocar?
¿Acaso a Luís, muerto a los treinta y dos años
cuando la poesía empezaba a crecer
en su garganta y le dolía en el costado
ese escuálido y turbio ángel del desamor?
¿Tal vez a Wichy el Rojo, quien seguramente
continuará en su eterno retornógrafo,
dialogando con Tristan Tzara
o con Guillaume Apollinaire, el soldado polaco
de sus versos?
Los muertos beben solos, me repito,
pero voy con la botella
hasta el rincón más íntimo de casa
donde Ángel Escobar, sudoroso y suicida,
masca alucinado hojas de curujey,
le pide al alcor funesto que aparte a los forenses
y sigue diciéndonos, para que no lo olvidemos,
… moriré/ solo de mí: no llevo un clavel rojo
en la solapa, no puedo sonreír:
alguien siempre dispara
su pistola en medio del concierto…
Los muertos beben solos, insisto,
y el ámbar del añejo deja en el aire breve
una línea sin origen ni fin donde Raúl,
desde su enorme silencio, aparta la vieja pistola
de su animal civil y dice a Gelsomina:
Ven… a ver al niño enfermo
que allí en su lecho abandonado yace...
mientras Ignacio Vázquez se pone el pecho
de Sor Juana para decir los versos que le dicta
su esquizofrenia contagiosa.
¿Dónde está Juan Puga? Lo busco por la casa
y vuelvo a mi balcón pero en esta noche de diciembre
no están los flamboyanes florecidos,
ni puedo intuir los almendros agrestes de su tierra.
¿Será cierto lo que una vez le dije:
empiezas –y eso duele– a ser olvido?
No tengo pacharán, querido hermano, pero te ofrezco
este trago de ron. ¿Lo compartimos?
Los muertos beben solos
le digo a los que esperan y ríen satisfechos
sin sospechar que alguien los va a evocar mañana
derramando licor por los rincones.
Naborí ya lo dijo, recordando a Semónides de Ceos,
Arrobados de sueños y paisaje/ creemos infinito nuestro
viaje/ pero ¡ay! el viaje es demasiado breve.
Hay muertos más recientes, muertos
como Jesús Cos Causse que se llevó algo de mí, raigal,
aunque dejaba, detrás de cada verso algún ruido del corazón.
Negro, brindemos por Nilda Arzuaga;
no sé si ella, en algún sitio del planeta,
se acuerda de tus versos, de aquella noche cómplice,
junto a la ventana de Luz Vázquez
pero vamos a repetirlos tú y yo para que los oiga
donde quiera que esté.
Mañana la historia
le pondrá un rostro extraño
a nuestro amor y nuestras cartas serán leyendas
para los poetas de entonces.
Uno no sabe nunca en qué amor acabarse, en qué
salto cruzar las cenizas.
Hay muertos más recientes, lo repito,
muertos que nos dejaron definitivamente huérfanos.
Pienso en Joel, en su ternura brusca,
en su cortante lucidez, en su diálogo intacto con los loa
buscando una explicación para sí mismo,
para nosotros, para esta Isla entrañable que nos duele.
¿Encontraste al buen dios hermano?
No tengo el preparado de aguardiente
con las yerbas de monte pero bebe, bebe conmigo
este añejo hecho con las mejores aguas de la tierra.
¿Los muertos beben solos?
No puedo evitar que me sorprenda
esa costumbre nuestra:
dar de beber primero a los ausentes.
No se trata de convocarlos a la fiesta,
ni tampoco es un ritual de la memoria;
los muertos beben solos.
A medida que los años pasan
el silencio sin ruido, ayer imperceptible,
empieza a acompañarnos,
a dejar sus huellas sobre las sábanas,
a sustituir con nuestro rostro la cara del amigo.
Ayer, mientras descorchaba mi añejo de reserva
para brindar por la llegada de otro año
supe, sin duda alguna,
que debía mojar un rincón de la casa.
Para quién era el trago? ¿a quien debía evocar?
¿Acaso a Luís, muerto a los treinta y dos años
cuando la poesía empezaba a crecer
en su garganta y le dolía en el costado
ese escuálido y turbio ángel del desamor?
¿Tal vez a Wichy el Rojo, quien seguramente
continuará en su eterno retornógrafo,
dialogando con Tristan Tzara
o con Guillaume Apollinaire, el soldado polaco
de sus versos?
Los muertos beben solos, me repito,
pero voy con la botella
hasta el rincón más íntimo de casa
donde Ángel Escobar, sudoroso y suicida,
masca alucinado hojas de curujey,
le pide al alcor funesto que aparte a los forenses
y sigue diciéndonos, para que no lo olvidemos,
… moriré/ solo de mí: no llevo un clavel rojo
en la solapa, no puedo sonreír:
alguien siempre dispara
su pistola en medio del concierto…
Los muertos beben solos, insisto,
y el ámbar del añejo deja en el aire breve
una línea sin origen ni fin donde Raúl,
desde su enorme silencio, aparta la vieja pistola
de su animal civil y dice a Gelsomina:
Ven… a ver al niño enfermo
que allí en su lecho abandonado yace...
mientras Ignacio Vázquez se pone el pecho
de Sor Juana para decir los versos que le dicta
su esquizofrenia contagiosa.
¿Dónde está Juan Puga? Lo busco por la casa
y vuelvo a mi balcón pero en esta noche de diciembre
no están los flamboyanes florecidos,
ni puedo intuir los almendros agrestes de su tierra.
¿Será cierto lo que una vez le dije:
empiezas –y eso duele– a ser olvido?
No tengo pacharán, querido hermano, pero te ofrezco
este trago de ron. ¿Lo compartimos?
Los muertos beben solos
le digo a los que esperan y ríen satisfechos
sin sospechar que alguien los va a evocar mañana
derramando licor por los rincones.
Naborí ya lo dijo, recordando a Semónides de Ceos,
Arrobados de sueños y paisaje/ creemos infinito nuestro
viaje/ pero ¡ay! el viaje es demasiado breve.
Hay muertos más recientes, muertos
como Jesús Cos Causse que se llevó algo de mí, raigal,
aunque dejaba, detrás de cada verso algún ruido del corazón.
Negro, brindemos por Nilda Arzuaga;
no sé si ella, en algún sitio del planeta,
se acuerda de tus versos, de aquella noche cómplice,
junto a la ventana de Luz Vázquez
pero vamos a repetirlos tú y yo para que los oiga
donde quiera que esté.
Mañana la historia
le pondrá un rostro extraño
a nuestro amor y nuestras cartas serán leyendas
para los poetas de entonces.
Uno no sabe nunca en qué amor acabarse, en qué
salto cruzar las cenizas.
Hay muertos más recientes, lo repito,
muertos que nos dejaron definitivamente huérfanos.
Pienso en Joel, en su ternura brusca,
en su cortante lucidez, en su diálogo intacto con los loa
buscando una explicación para sí mismo,
para nosotros, para esta Isla entrañable que nos duele.
¿Encontraste al buen dios hermano?
No tengo el preparado de aguardiente
con las yerbas de monte pero bebe, bebe conmigo
este añejo hecho con las mejores aguas de la tierra.
¿Los muertos beben solos?
A MO’ DI ELEGIA
Non posso evitare che mi sorprenda
questa nostra abitudine:
dare da bere prima agli assenti.
Non si tratta di convocarli alla festa,
e non è neanche un rituale della memoria;
i morti bevono da soli.
Man mano che gli anni passano
il silenzio senza rumore, ieri impercettibile,
comincia ad accompagnarci,
a lasciare le sue tracce sulle lenzuola,
a sostituire col nostro volto il viso dell’amico.
Ieri, mentre stappavo il mio liquore di riserva
per brindare all’arrivo di un altro anno
ho saputo, senza alcun dubbio,
che dovevo bagnare un angolo della casa.
Per chi dovevo bere? chi dovevo evocare?
Forse Luis, morto a trentadue anni
quando la poesia cominciava a crescere
nella sua gola e gli doleva nel fianco
quello squallido e torbido angelo del disamore?
Forse Wichy il Rosso8, che sicuramente
continuerà il suo eterno ritornografo,
dialogando con Tristan Tzara
o con Guillaume Apollinare, il soldato polacco
dei suoi versi?
I morti bevono da soli, ripeto,
ma vado con la bottiglia
fino all’angolo più intimo della casa
dove Ángel Escobar, madido di sudore e suicida,
mastica allucinato foglie di curujey,
chiede al colle funesto che allontani i medici legali
e continua a dirci, perché non lo dimentichiamo.
... morirò/ solo di me: non porto un garofano rosso
sul risvolto, non posso sorridere:
qualcuno sempre spara
con la sua pistola in mezzo al concerto...
I morti bevono da soli, insisto,
e l’ambra del liquore lascia nell’aria breve
una linea senza origine né fine dove Raúl,
dal suo enorme silenzio, allontana la vecchia pistola
dal suo animale civile e dice a Gelsomina:
Vieni... a vedere il bambino ammalato
che lì sul suo letto abbandonato giace...
mentre Ignacio Vázquez si mette il seno
di Suor Juana per dire i versi che gli detta
la sua schizofrenia contagiosa.
Dov’è Juan Puga? Lo cerco per la casa
e torno al mio balcone ma in questa notte di dicembre
non ci sono i flamboyanes9 fioriti,
né posso intuire i mandorli selvatici della sua terra.
Sarà vero quello che una volta gli dissi:
cominci – e fa male – a essere dimenticato?
Non ho pacharán10, caro fratello, ma ti offro
questo sorso di rum. Lo beviamo insieme?
I morti bevono da soli
dico a quanti aspettano e ridono soddisfatti
senza sospettare che qualcuno li evocherà domani
spargendo liquore lungo gli angoli.
Naborí11 lo ha già detto, ricordando Simonide di Ceo,
Ammaliati da sogni e dal paesaggio/ crediamo infinito il nostro
viaggio / ma ahi! il viaggio è troppo breve.
Ci sono morti più recenti, morti
come Jesús Cos Causse che si è portato qualcosa di me, alla radice,
anche se lasciava, dietro ad ogni verso qualche rumore del cuore.
Nero, brindiamo a Nilda Arzuaga;
non so se lei, in qualche posto del pianeta,
si ricorda dei tuoi versi, di quella notte complice,
vicino alla finestra di Luz Vázquez
ma li ripeteremo tu e io perché li ascolti
ovunque sia.
Domani la storia
metterà un volto estraneo
al nostro amore e le nostre lettere saranno leggende
per i poeti di allora.
Uno non sa mai in quale amore finire, in quale
salto attraversare le ceneri.
Ci sono morti più recenti, lo ripeto,
morti che ci hanno lasciati definitivamente orfani.
Penso a Joel, alla sua tenerezza burbera,
alla sua tagliente lucidità, al suo dialogo intatto con le loa
cercando una spiegazione per se stesso,
per noi, per quest’isola cara che ci duole.
Hai trovato il buon dio fratello?
Non ho il preparato di acquavite
con le erbe di montagna ma bevi, bevi con me
questo liquore fatto con le migliori acque della terra.
I morti bevono da soli?
Non posso evitare che mi sorprenda
questa nostra abitudine:
dare da bere prima agli assenti.
Non si tratta di convocarli alla festa,
e non è neanche un rituale della memoria;
i morti bevono da soli.
Man mano che gli anni passano
il silenzio senza rumore, ieri impercettibile,
comincia ad accompagnarci,
a lasciare le sue tracce sulle lenzuola,
a sostituire col nostro volto il viso dell’amico.
Ieri, mentre stappavo il mio liquore di riserva
per brindare all’arrivo di un altro anno
ho saputo, senza alcun dubbio,
che dovevo bagnare un angolo della casa.
Per chi dovevo bere? chi dovevo evocare?
Forse Luis, morto a trentadue anni
quando la poesia cominciava a crescere
nella sua gola e gli doleva nel fianco
quello squallido e torbido angelo del disamore?
Forse Wichy il Rosso8, che sicuramente
continuerà il suo eterno ritornografo,
dialogando con Tristan Tzara
o con Guillaume Apollinare, il soldato polacco
dei suoi versi?
I morti bevono da soli, ripeto,
ma vado con la bottiglia
fino all’angolo più intimo della casa
dove Ángel Escobar, madido di sudore e suicida,
mastica allucinato foglie di curujey,
chiede al colle funesto che allontani i medici legali
e continua a dirci, perché non lo dimentichiamo.
... morirò/ solo di me: non porto un garofano rosso
sul risvolto, non posso sorridere:
qualcuno sempre spara
con la sua pistola in mezzo al concerto...
I morti bevono da soli, insisto,
e l’ambra del liquore lascia nell’aria breve
una linea senza origine né fine dove Raúl,
dal suo enorme silenzio, allontana la vecchia pistola
dal suo animale civile e dice a Gelsomina:
Vieni... a vedere il bambino ammalato
che lì sul suo letto abbandonato giace...
mentre Ignacio Vázquez si mette il seno
di Suor Juana per dire i versi che gli detta
la sua schizofrenia contagiosa.
Dov’è Juan Puga? Lo cerco per la casa
e torno al mio balcone ma in questa notte di dicembre
non ci sono i flamboyanes9 fioriti,
né posso intuire i mandorli selvatici della sua terra.
Sarà vero quello che una volta gli dissi:
cominci – e fa male – a essere dimenticato?
Non ho pacharán10, caro fratello, ma ti offro
questo sorso di rum. Lo beviamo insieme?
I morti bevono da soli
dico a quanti aspettano e ridono soddisfatti
senza sospettare che qualcuno li evocherà domani
spargendo liquore lungo gli angoli.
Naborí11 lo ha già detto, ricordando Simonide di Ceo,
Ammaliati da sogni e dal paesaggio/ crediamo infinito il nostro
viaggio / ma ahi! il viaggio è troppo breve.
Ci sono morti più recenti, morti
come Jesús Cos Causse che si è portato qualcosa di me, alla radice,
anche se lasciava, dietro ad ogni verso qualche rumore del cuore.
Nero, brindiamo a Nilda Arzuaga;
non so se lei, in qualche posto del pianeta,
si ricorda dei tuoi versi, di quella notte complice,
vicino alla finestra di Luz Vázquez
ma li ripeteremo tu e io perché li ascolti
ovunque sia.
Domani la storia
metterà un volto estraneo
al nostro amore e le nostre lettere saranno leggende
per i poeti di allora.
Uno non sa mai in quale amore finire, in quale
salto attraversare le ceneri.
Ci sono morti più recenti, lo ripeto,
morti che ci hanno lasciati definitivamente orfani.
Penso a Joel, alla sua tenerezza burbera,
alla sua tagliente lucidità, al suo dialogo intatto con le loa
cercando una spiegazione per se stesso,
per noi, per quest’isola cara che ci duole.
Hai trovato il buon dio fratello?
Non ho il preparato di acquavite
con le erbe di montagna ma bevi, bevi con me
questo liquore fatto con le migliori acque della terra.
I morti bevono da soli?
Poesie tratte da E. Coco - W. Leyva, Una goccia di luce inafferrabile / Una gota de luz inapresable. Antologia della poesia cubana, Raffaelli Editore, Rimini 2017.