Continuiamo la serie delle anticipazioni all’uscita del nostro Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea n. 5 (2017), inaugurata con lo scorso numero di Terza Pagina dedicato a John Kinsella, e lo facciamo con Susan Stewart e la sua poesia Pine, tratta dall’ultima raccolta intitolata Cinder: New and Selected Poems (Graywolf Press, 2017) e tradotta per noi da Maria Cristina Biggio.
Susan Stewart vive e lavora tra Filadelfia e Princeton. Tra i maggiori intelletti delle lettere americane contemporanee, è poeta, critico e traduttore. Avalon Foundation University Professor in the Humanities a Princeton, dirige la Society of Fellows in the Liberal Arts e la Princeton Series of Contemporary Poets. La sua opera poetica è stata ampiamente antologizzata e insignita di prestigiosi premi, così come i suoi importanti volumi di critica letteraria.
Susan Stewart vive e lavora tra Filadelfia e Princeton. Tra i maggiori intelletti delle lettere americane contemporanee, è poeta, critico e traduttore. Avalon Foundation University Professor in the Humanities a Princeton, dirige la Society of Fellows in the Liberal Arts e la Princeton Series of Contemporary Poets. La sua opera poetica è stata ampiamente antologizzata e insignita di prestigiosi premi, così come i suoi importanti volumi di critica letteraria.
Pine
a homely word:
a plosive, a long cry, a quiet stop, a silent letter
like a storm and the end of a storm,
the kind brewing
at the top of a pine,
(torn hair, bowed spirits and,
later, straightened shoulders)
who’s who of the stirred and stirred up:
musicians, revolutionaries, pines.
A coniferous tree with needle-shaped leaves.
Suffering or trouble; there’s a pin inside.
The aphoristic seamstress was putting up a hem, a shelf of pins at her pursed mouth.
“needles and pins/ needles and pins/ when a man marries/ his trouble begins.”
A red pin-cushion with a twisted string, and a little pinecone tassel, at the ready.
That particular smell, bracing,
exact as a sharpened point.
The Christmas tree, nude and fragrant,
propped as pure potential in
the corner with no nostalgia for
ornament or angels.
“Pine-Sol,” nauseating, earnest, imitation—
one means of knowing the real thing is the fake you find in school.
Pent up inside on a winter day, the steaming closeness from the radiators.
At the bell, running down the hillside. You wore a pinefore
The air had a nip: pine
was traveling in the opposite direction.
Sunlight streaming through a stand of pines,
dancing backwards through the A’s and T’s.
Is it fern or willow that’s the opposite of pine?
An alphabet made of trees.
In the clearing vanished hunters
left their arrowheads
and deep cuts in the boulder wall:
petroglyphs, repeating triangles.
Grandmothers wearing pinnies trimmed in rickrack.
One family branch lived in a square of oak forest, the other in a circle of pines;
the oak line: solid, reliable, comic; the piney one capable of pain and surprise.
W-H-I-T-E: the white pine’s five-frond sets spell its name. (Orthography of other pines
I don’t yet know.)
The weight of snow on boughs, lethargic, then rocked by the thump of a settling crow.
Pine cones at the Villa Borghese: Fibonacci increments,
heart-shaped veins, shadowing the inner
edges of the petals.
Like variations at the margins of a bird-feather.
Graffiti tattooing the broken
water-clock, a handful
of pine-nuts, pried out, for lunch.
Pining away like Respighi with your pencil.
For a coffin, you’d pick a plain
pine box suspended in a weedy sea.
No undergrowth, though, in a pine forest.
Unlike the noisy wash
of dry deciduous leaves,
the needles blanket the earth
pliant beneath a bare foot,
stealthy,
floating,
a walk through the pines.
Silence in the forest comes from books.
a homely word:
a plosive, a long cry, a quiet stop, a silent letter
like a storm and the end of a storm,
the kind brewing
at the top of a pine,
(torn hair, bowed spirits and,
later, straightened shoulders)
who’s who of the stirred and stirred up:
musicians, revolutionaries, pines.
A coniferous tree with needle-shaped leaves.
Suffering or trouble; there’s a pin inside.
The aphoristic seamstress was putting up a hem, a shelf of pins at her pursed mouth.
“needles and pins/ needles and pins/ when a man marries/ his trouble begins.”
A red pin-cushion with a twisted string, and a little pinecone tassel, at the ready.
That particular smell, bracing,
exact as a sharpened point.
The Christmas tree, nude and fragrant,
propped as pure potential in
the corner with no nostalgia for
ornament or angels.
“Pine-Sol,” nauseating, earnest, imitation—
one means of knowing the real thing is the fake you find in school.
Pent up inside on a winter day, the steaming closeness from the radiators.
At the bell, running down the hillside. You wore a pinefore
The air had a nip: pine
was traveling in the opposite direction.
Sunlight streaming through a stand of pines,
dancing backwards through the A’s and T’s.
Is it fern or willow that’s the opposite of pine?
An alphabet made of trees.
In the clearing vanished hunters
left their arrowheads
and deep cuts in the boulder wall:
petroglyphs, repeating triangles.
Grandmothers wearing pinnies trimmed in rickrack.
One family branch lived in a square of oak forest, the other in a circle of pines;
the oak line: solid, reliable, comic; the piney one capable of pain and surprise.
W-H-I-T-E: the white pine’s five-frond sets spell its name. (Orthography of other pines
I don’t yet know.)
The weight of snow on boughs, lethargic, then rocked by the thump of a settling crow.
Pine cones at the Villa Borghese: Fibonacci increments,
heart-shaped veins, shadowing the inner
edges of the petals.
Like variations at the margins of a bird-feather.
Graffiti tattooing the broken
water-clock, a handful
of pine-nuts, pried out, for lunch.
Pining away like Respighi with your pencil.
For a coffin, you’d pick a plain
pine box suspended in a weedy sea.
No undergrowth, though, in a pine forest.
Unlike the noisy wash
of dry deciduous leaves,
the needles blanket the earth
pliant beneath a bare foot,
stealthy,
floating,
a walk through the pines.
Silence in the forest comes from books.
Pino
una parola familiare:
un’occlusiva, un grido prolungato, un pausa di quiete, una lettera silente
come una tempesta e la fine di una tempesta,
una sorta di guaio in arrivo
in cima a un pino,
(chioma strappata, giù di spirito e,
più tardi, spalle raddrizzate)
il gotha di agitati e tormentati:
musicisti, rivoluzionari, pini.
Una conifera dalle foglie a forma di ago.
Sofferente o in difficoltà; ha uno spillo dentro.
L’aforistica cucitrice appuntava un orlo, una serie di spilli nella sua bocca contratta.
“aghi e spilli / aghi e spilli / quando un uomo si sposa / iniziano i cavilli.”
Un puntaspilli rosso con un cordoncino e una nappina a forma di pigna, pronti per l’uso.
Quel particolare aroma, tonificante,
esatto come una punta tagliente.
L’albero di Natale, nudo e fragrante,
poggiato come puro potenziale
in un angolo senza nostalgia per
ornamenti o angeli.
‘Pine-Sol’, nauseante, fedele imitazione—
uno dei modi per conoscere la cosa reale è il falso che si trova a scuola.
Chiusi dentro in un giorno d’inverno, nella soffocante prossimità dei radiatori.
Al suono della campana, correvamo giù per la collina. Si indossava un grembiule.
Faceva un freddo pungente: il pino
si portava nella direzione opposta.
La luce del sole si irradiava nel folto dei pini,
danzando all’indietro attraverso le A e le T.
Ѐ la felce o il salice a essere l’opposto del pino?
Un alfabeto di alberi.
Nella radura cacciatori scomparsi
lasciavano punte di freccia
e profondi solchi nella parete di roccia:
petroglifi che ripetevano triangoli.
Le nonne indossavano grembiuli ornati di passamaneria a zig-zag.
Un ramo della famiglia viveva nel riquadro di una foresta di querce, l’altro in un cerchio di pini;
la linea delle quercia: solida, affidabile, briosa; quella del pino capace di dolore e sorpresa.
W-H-I-T-E: la serie di pini bianchi a cinque fronde compita il proprio nome. (Ancora non so l’ortografia
degli altri pini.)
Il peso della neve sui rami letargici, fatti poi dondolare dal tonfo di un corvo che si posa.
Pigne a Villa Borghese: successioni di Fibonacci,
venature a forma di cuore, che ombreggiano i bordi
interni dei petali.
Come variazioni ai margini di una piuma d’uccello.
Graffiti che tatuano la clessidra d’acqua
in frantumi, una manciata
di pinoli, tirati fuori per pranzo.
Che si consumano come Respighi con la sua matita.
Come bara, si dovrebbe scegliere una semplice
cassa di pino sospesa in un mare erboso.
Tuttavia, nessun sottobosco in una foresta di pini.
Diversamente dal fruscio crepitante
delle foglie secche decidue,
gli aghi ricoprono la terra
cedevoli sotto un piede nudo,
furtivo,
fluttuante,
a spasso fra i pini.
Il silenzio nella foresta viene dai libri.
una parola familiare:
un’occlusiva, un grido prolungato, un pausa di quiete, una lettera silente
come una tempesta e la fine di una tempesta,
una sorta di guaio in arrivo
in cima a un pino,
(chioma strappata, giù di spirito e,
più tardi, spalle raddrizzate)
il gotha di agitati e tormentati:
musicisti, rivoluzionari, pini.
Una conifera dalle foglie a forma di ago.
Sofferente o in difficoltà; ha uno spillo dentro.
L’aforistica cucitrice appuntava un orlo, una serie di spilli nella sua bocca contratta.
“aghi e spilli / aghi e spilli / quando un uomo si sposa / iniziano i cavilli.”
Un puntaspilli rosso con un cordoncino e una nappina a forma di pigna, pronti per l’uso.
Quel particolare aroma, tonificante,
esatto come una punta tagliente.
L’albero di Natale, nudo e fragrante,
poggiato come puro potenziale
in un angolo senza nostalgia per
ornamenti o angeli.
‘Pine-Sol’, nauseante, fedele imitazione—
uno dei modi per conoscere la cosa reale è il falso che si trova a scuola.
Chiusi dentro in un giorno d’inverno, nella soffocante prossimità dei radiatori.
Al suono della campana, correvamo giù per la collina. Si indossava un grembiule.
Faceva un freddo pungente: il pino
si portava nella direzione opposta.
La luce del sole si irradiava nel folto dei pini,
danzando all’indietro attraverso le A e le T.
Ѐ la felce o il salice a essere l’opposto del pino?
Un alfabeto di alberi.
Nella radura cacciatori scomparsi
lasciavano punte di freccia
e profondi solchi nella parete di roccia:
petroglifi che ripetevano triangoli.
Le nonne indossavano grembiuli ornati di passamaneria a zig-zag.
Un ramo della famiglia viveva nel riquadro di una foresta di querce, l’altro in un cerchio di pini;
la linea delle quercia: solida, affidabile, briosa; quella del pino capace di dolore e sorpresa.
W-H-I-T-E: la serie di pini bianchi a cinque fronde compita il proprio nome. (Ancora non so l’ortografia
degli altri pini.)
Il peso della neve sui rami letargici, fatti poi dondolare dal tonfo di un corvo che si posa.
Pigne a Villa Borghese: successioni di Fibonacci,
venature a forma di cuore, che ombreggiano i bordi
interni dei petali.
Come variazioni ai margini di una piuma d’uccello.
Graffiti che tatuano la clessidra d’acqua
in frantumi, una manciata
di pinoli, tirati fuori per pranzo.
Che si consumano come Respighi con la sua matita.
Come bara, si dovrebbe scegliere una semplice
cassa di pino sospesa in un mare erboso.
Tuttavia, nessun sottobosco in una foresta di pini.
Diversamente dal fruscio crepitante
delle foglie secche decidue,
gli aghi ricoprono la terra
cedevoli sotto un piede nudo,
furtivo,
fluttuante,
a spasso fra i pini.
Il silenzio nella foresta viene dai libri.
Traduzioni inedite di M.C. Biggio
Da: Almanacco dei poeti e della poesia contempranea n. 5, Raffaelli Editore 2017.